Quando si pensa all’Università, da studenti, avviene un’associazione spontanea a termini quali ansia, frustrazione, timore. Facendo un riferimento a quello che invece l’Università rappresenta, i termini più corretti a cui si dovrebbe pensare sono futuro, voglia di crescere, migliorarsi. Gli studenti sono, per antonomasia, il fulcro del divenire. Sempre più spesso sono però bersaglio di patologie scatenate da continue pressioni, le quali derivano da sovraccarichi didattici (in seguito, fra i tanti, alla riduzione dei tempi di laurea), dalla costante competizione con i propri pari, talvolta morbosa.
Un liceale su tre, si trova catapultato in un mondo dove esistono solo maratoneti in corsa, con poco spazio per chi non ha abbastanza fiato. I neo-adulti si trovano a dover fronteggiare da soli, in un periodo di transizione ancora delicato, un ambiente accademico che non aspetta e, indirettamente, scandisce i tempi della vita dello studente. Un’università che parte da questi presupposti sembra quasi avere lo scopo di produrre delle macchine umane: un ossimoro che risulta obiettivamente controproducente sia dal punto di vista dell’apprendimento che da un punto di vista sanitario. Il latino Giovenale sosteneva: “mens sana in corpore sano”. Al contrario, il tempo libero da dedicare alle proprie passioni e allo sport, diventa, il più delle volte, utopia per uno studente universitario. “Devo studiare, non ho tempo per…” è una delle frasi più comuni nel mondo accademico, una citazione che risulta un mix concentrato di rinunce alla vita, intrinseco di tristezza e rassegnazione. Nella maggior parte dei casi, il mancato sfogo dei malesseri interni, porta ad una destabilizzazione non indifferente dei ragazzi in quanto, alle cattive condizioni psicologiche (ansia e depressione, principalmente), si affiancano conseguenze fisiche quali attacchi di panico, che influenzano negativamente la quotidianità e il rapportarsi con gli altri. A questo, soprattutto per le personalità più sensibili e vulnerabili, fanno fronte gravi problematiche tra cui alcolismo, droga, disturbi alimentari, perdita della cognizione di se stessi, autolesionismo. Quindi, di chi è l’errore? Va capito se la responsabilità di tutto questo va attribuita all’organizzazione didattica universitaria oppure ad una mancata assistenza che possa prevenire che queste situazioni si propongano. Quindi, di chi è l’errore? Va capito se la responsabilità di tutto questo va attribuita all’organizzazione didattica universitaria oppure ad una mancata assistenza che possa prevenire che queste situazioni si propongano. Sicuramente è difficile, se non impossibile, pensare di porre rimedio definitivo ad ansia e stress a cui gli studenti sono sottoposti ogni giorno: sarebbe il sogno di chiunque, ma andrebbe contro la natura umana; per citare il grande Eduardo De Filippo, nella vita “gli esami non finiscono mai.” In alternativa, però, con tutta probabilità, sarebbe efficace una politica terapeutica preventiva che permetta di rendere meno traumatico l’impatto accademico sulla salute mentale degli studenti. Al fine di rendere la carriera universitaria il più proficua possibile, sia da un punto di vista personale che in prospettiva di un futuro nella collettività, sarebbe forse opportuno creare dei centri di incontro tra esperti della materia psicologica, ragazzi che condividono tali disagi, e, perché no, professori che possano prendere spunto per creare una didattica migliore, più organizzata, volta a incoraggiare i posteri a non abbandonare l’idea di iscriversi ad un corso di laura e garantire, cosi, una continuità dell’istituto.
Ilaria Rossomanno
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